Sindacato. Unità d’azione un bene per il futuro del Paese
Il braccio di ferro c’è, ed è tutto politico, tra Susanna Camusso e Matteo Renzi. I tempi sono cambiati da quando il feeling tra la sinistra, in particolare il Pd, e la Cgil era talmente solido che non c’erano differenze di posizioni. Non ci potevano essere, specialmente quando i Governi facevano capo al centro-destra. “Rottamare per cambiare”, su per giù è stato il motto dell’ex sindaco di Firenze. Senza alcuna deroga o distinguo tra chi inviare dallo sfasciacarrozze e chi salvare. Nella visione del presidente del Consiglio il Sindacato è il “passato” con i suoi riti e miti: concertazione o dialogo sociale. Con gli scioperi generali “politici”, con le strutture elefantiache, tutte centrate su se stesse. Insomma, meglio il dialogo diretto tra i lavoratori e l’Esecutivo, senza intermediazioni fuorvianti.
L’impostazione renziana dei non rapporti sindacali, fondata sul vecchio paternalismo padronale, fuso con le moderne “Human Relations” – “che c’entrano i sindacati, parliamone tra noi” -, e della “rottamazione sempre e comunque”, è evidentemente sbagliata. Nella situazione di difficoltà in cui versa il Paese la coesione sociale è fondamentale per raggiungere obiettivi significativi per lo sviluppo. Il vero problema è evitare le frammentazioni e costruire unità per creare opportunità di lavoro. E senza occupazione stabile, con i disoccupati che aumentano e con tanti, troppi, giovani che non hanno mai visto un’ora sola d’impiego retribuito, non si va da nessuna parte. Certo, lo sciopero generale, per un Paese che ha perso venticinque punti di produzione industriale, non è lo strumento adeguato – come sostiene Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl – per rimettere in moto una macchina inceppata. Può dare solo degli alibi ideologici di divisione, in un momento dove la ricerca delle cose che uniscono è fondamentale.
C’è chi ha giustamente evidenziato come lo sciopero generale abbia avuto connotazioni essenzialmente politiche, con la Cgil nel ruolo di supplente “di una sinistra che non ha avuto la forza di modificare sostanzialmente la natura del Jobs Act”. E questo ruolo, improprio per il Sindacato, viene confermato dalla non discesa in piazza contro le leggi di stabilità dei Governi precedenti, molto “amare” per i lavoratori e i cittadini, mentre quest’ultima prevede 18 miliardi di taglio delle tasse e risparmi sull’Irap. Insomma, contraddizioni che servono sempre più ad alimentare bracci di ferro inopportuni. Lo stesso Giorgio Napolitano ha insistito per superare la grande “tensione” di cui lo sciopero generale è segno e che, comunque, non fa bene al Paese.
Bisognerà voltare pagina da ambo le parti, Governo e Sindacato, nei prossimi giorni. Per il ventidue di dicembre è prevista l’emanazione di due decreti delegati per l’attuazione del Jobs Act. Mettendo da parte le questioni ideologiche, bisognerà puntare ad un confronto serrato tra Sindacato e ministro del Lavoro per il varo di norme di tutela efficaci per combattere la precarietà e puntare all’occupazione ed allo sviluppo.
Susanna Camusso, forse riferendosi all’astensione della Cisl allo sciopero generale, ha affermato: “Ci dispiace, ma non pensiamo che il Paese abbia bisogno di rassegnazione.” Nessuna rassegnazione, anzi, proprio l’incontrario: la necessità di evitare il “muro contro muro” che nell’attuale congiuntura assolutamente non serve all’Italia e rischia solo contrapposizioni paralizzanti, che non sbloccano situazioni incancrenitesi – proprio per l’ottica ideologica con cui sono state viste – nel tempo. Ha ragione Annamaria Furlan quando è ottimista sul ritorno al dialogo tra Cgil Cisl Uil: è una necessità assoluta. Ha torto, invece, Filippo Taddei, della segreteria del Pd, quando dichiara, ripetendo concetti cari al suo presidente-segretario, che “noi rispondiamo ai lavoratori italiani. Se per farlo attiriamo le critiche del sindacato, ci dispiace ma non ci fermiamo”. Dichiarazioni del genere fanno capire quanto la presunzione può diventare esiziale per tutto il Paese.
Elia Fiorillo