Cheese 2017: il made in Italy dei migranti, quando il cibo vuol dire interazione e integrazione
Negli stessi giorni in cui con lo ius soli una parte del popolo italiano ha ricevuto l’ennesima delusione, rimanendo intrappolata in un limbo legislativo e identitario, Cheese avvia un ponte di dialogo e lo fa a partire dai temi che gli sono propri.
Anzi, dai prodotti dell’agroalimentare italiano presenti alla manifestazione organizzata da Slow Food e Città di Bra: non solo formaggi a latte crudo, ma anche salumi, vini, pani e dolci, conserve e mieli. Dietro alcuni tra i cibi e le bevande più conosciuti e consumati del made in Italy ci sono spesso persone arrivate nel nostro Paese con la speranza di costruire un futuro migliore. La crudezza dei media, purtroppo, ne mette in rilievo piuttosto il coinvolgimento in fatti di cronaca, oscurando invece il grande contributo che essi danno al nostro (che è anche loro) Paese.
«Dimentichiamo sempre che trovandoci davanti a un’altra persona dovremmo parlare di interazione piuttosto che di integrazione, di scambio di conoscenze, saperi, tradizioni. Come avviene nelle nostre Langhe, dove le grandi vigne di Barolo sono curate dai macedoni, e in Valle d’Aosta, dove i giovani autoctoni hanno lasciato il posto ai maghrebini. Un giorno, con calma e raziocinio, potremmo essere tutti più fraternamente uniti su questi temi, indipendentemente dalla pelle, dalla religione, dalla politica, ma a partire dal cibo» afferma ilpresidente di Slow Food Carlo Petrini intervenendo alla conferenza Il latte dei migranti.
«Finalmente si porta alla ribalta un tema di straordinaria rilevanza, e cioè che noi oggi mangiamo il cibo prodotto dai migranti. Gli studi scientifici, i giornali e le tv non ne parlano mai perché puntano il dito solo su aspetti negativi, senza mettere in evidenza quello che accade ad esempio nel settore caseario, uno straordinario contributo all’economia e alla cultura italiane», esordisce Paolo Corvo, ricercatore in Sociologia presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. «Il cibo poi è come la musica e il cinema, ha una straordinaria capacità di integrazione identitaria tra le culture al di là della lingua, ed è bello che accanto all’affermazione della territorialità del prodotto fioriscano esperimenti di cultura gastronomica multietnica».
La giornalista statunitense di origine indiana Simran Sethi, autrice del libro Bread Wine and Chocolate per i tipi di Slow Food Editore, è ancora più netta nel raccontare l’indagine sulla vita dei lavoratori Sikh tra i caselli dell’Emilia Romagna: «Se vi piace il Parmigiano Reggiano vi piacciono anche quelli che hanno la mia faccia perché rappresentano il 60% dei lavoratori che contribuiscono alla produzione di questo grande formaggio. E sono italiani!».
Senza andare troppo lontano, nella sola provincia di Cuneo, le persone di origine straniera impiegate nel settore dell’allevamento sono 592. In tutto il territorio regionale sono 885, il 60% delle persone regolarmente impiegate nel settore. La maggior parte sono indiani, seguiti da romeni e africani. E non a caso a Marene, a pochi chilometri da Bra, si trova la seconda comunità Sikh più importante in Italia, rappresentata durante il convegno da Daljit Singh, guida spirituale e mungitore per le Fattorie Fiandino di Villafalletto: «Quando sono arrivato in Piemonte eravamo in 10 o forse 15, adesso siamo quasi 3000. Ma la nostra comunità è aperta e accogliamo tutti senza chiedere il credo o l’appartenenza politica. Siamo bravi con gli animali perché abbiamo profondo rispetto della natura e di tutto ciò che ne fa parte».
Quelli che fotografano il Piemonte sono i dati forniti dall’assessore regionale alle pari opportunità Monica Cerutti che sta seguendo l’iter della legge regionale sull’immigrazione, chiamata anche “promozione di cittadinanza”, al momento in consiglio regionale, con tutto il suo programma di azioni di inclusione e riduzione delle disparità. Le fa eco l’assessore all’agricoltura Giorgio Ferrero: «Il settore agricolo è la prima accoglienza nel mondo del lavoro per i migranti, ma non perché sia bassa manovalanza, perché tante aziende piemontesi che fanno eccellenza e si vantano del benessere animale, lo possono fare grazie alle persone che lavorano per loro e che fanno la differenza. Nel prossimo Piano di Sviluppo Rurale ci sarà un contributo dato alle aziende che vogliono costruire alloggi di ospitalità per i loro lavoratori, per aiutare gli imprenditori nell’accoglienza che vogliono dare ai loro dipendenti».
Ma oltre ai contratti regolarmente registrati, di cui danno conto i dati ufficiali, c’è il cosiddetto lavoro informale, che per definizione è impossibile quantificare, se non grazie alle stime (sempre necessariamente per difetto) degli osservatori privilegiati, cioè le associazioni di categoria che hanno un contatto diretto e quotidiano con le aziende agricole. In Piemonte il lavoro informale si attesta al di sotto del 10%, mentre in Valle d’Aosta sale al 15%. Poi ci sono zone del Centro Italia, come l’Abruzzo, in cui la pastorizia è sinonimo di migranti.
«In Italia quando si parla di pastorizia si parla di migranti, come del resto in tutto il Mediterraneo, a partire da Spagna, Grecia e Francia» sottolinea l’esperto in pastorizia dei paesi tropicali e ricercatore presso l’istituto universitario europeo di Firenze, Michele Nori. L’impiego di migranti nella pastorizia non è un fenomeno nuovo, basti pensare a quello che è accaduto in tutto il Centro Italia negli anni ’50, quando arrivarono i sardi con le navi, portandosi dietro le loro pecore, ripopolando intere aree abbandonate a causa del boom economico e mantenendo tradizioni casearie e paesaggi rurali. Ma anche in Piemonte 100 anni fa, quando dai poveri comuni di montagna si trasferirono in grandi numeri nel Sud della Francia, dove ci sono ancora intere comunità che portano cognomi italiani, come testimonia uno studio della ricercatrice Laura Fossati. «Abbiamo avuto un crollo drammatico circa trent’anni fa quando a causa della mancanza di ricambio generazionale i Paesi dell’Europa mediterranea hanno perso il 30% delle greggi, ma negli ultimi anni stiamo ricominciando a salire la china proprio grazie ai migranti che vedono nella montagna il luogo più accogliente. Il passo successivo è trovare il modo di integrarli al meglio, di permettere loro di trasformarsi da pastori in imprenditori».
In questo senso ha visto lungo la Germania, avviando decise politiche di accoglienza e integrazione già prima della crisi migratoria più recente: «Tutti hanno confuso la lungimiranza politica della Merkel con un banale buonismo, ma lei rispondeva alla richiesta di manodopera dell’imprenditoria tedesca con una legge che apriva le porte ai flussi migratori e che ha contribuito a determinare il successo economico del Paese negli ultimi anni», dichiara l’europarlamentare Cecile Kyenge che, ritornando sullo ius soli, afferma: «Siamo ostaggi dei paladini della razza convinti che l’identità sia legata a questa, ma così non è».