Cheese 2017 alza l’asticella della qualità: latte crudo e fermenti autoctoni

 Cheese 2017 alza l’asticella della qualità: latte crudo e fermenti autoctoni

Il cibo del futuro deve essere “naturale”. È questa secondo Piero Sardo, Presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità e responsabile scientifico di Cheese, la sfida che l’edizione 2017 della manifestazione internazionale dedicata ai formaggi di qualità lancia a tutti i produttori che lavorano per la qualità. E questo non vale solo per i formaggi, ma anche per salumi, birre, vini e per tutti i prodotti alimentari di maggior consumo.

 

Ma cosa vuol dire esattamente “naturale”? Partiamo dal formaggio, protagonista di Cheese, per definizione, da oltre vent’anni. Ovviamente deve essere a latte crudo, ma questo non basta. La biodiversità di un formaggio sta in gran parte nella sua carica batterica, come ci spiega Giampaolo Gaiarin, tecnologo caseario della Fondazione Edmund Mach, «ovvero nelle migliaia di microrganismi che, presenti naturalmente nel latte appena munto e non pastorizzato, conferiscono al formaggio gusti e aromi tipici di un territorio». Purtroppo i fermenti naturali oggi sono in larga parte rimpiazzati da batteri selezionati in laboratorio e riprodotti industrialmente. Anche da chi usa il latte crudo: «Questo succede perché i fermenti industriali danno maggiori certezze in termini di replicabilità e buona riuscita del formaggio». Infatti, la “bustina” già pronta riduce il rischio di sviluppare batteri “cattivi” e di conseguenza limita gli scarti. «Insomma, è un modo per semplificarsi la vita, a scapito però del gusto e mortificando il ruolo del latte crudo».

 

Ma non per tutti è così. Piero Sardo ha raccolto più di 50 storie di eroi dell’autenticità nel suo libro I formaggi naturali, appena pubblicato da Slow Food Editore: «Siamo arrivati a un momento storico in cui bisogna scegliere da che parte stare» spiega l’autore. «Tenendo presente che chi prende la strada del naturale non deve per forza rinunciare alla quantità: ad esempio i caselli del Parmigiano Reggiano riuniti nel Consorzio producono complessivamente 3 milioni e mezzo di forme l’anno, un formaggio fatto a latte crudo e con fermentazione naturale». Artigiani dai grandi numeri quindi: «Oggi conosciamo il nome del formaggio ma non chi lo fa: il produttore rimane spesso sconosciuto a differenza di quanto accade in un altro settore, come quello del vino, dove la scelta viene fatta in base al produttore. Cheese è una grande opportunità per il mondo dei casari. Il vino ci ha impiegato 50 anni per farsi un nome, mentre il cammino del formaggio è appena iniziato», conclude Sardo.

 

Ma da dove vengono i fermenti industriali? E perché abbiamo cominciato a usarli? A queste domande risponde Bronwen Percival di Neal’s Yard Dairy, buyer e co-fondatrice di MicrobialFoods.org: «Gli starter artificiali sono stati la risposta a un’esigenza precisa: in Danimarca, negli anni Ottanta, il settore caseario si rese conto di non avere la capacità industriale sufficiente per competere sul mercato, nonostante si avessero tutte le carte in regola per produrre formaggi. L’isolamento di batteri in laboratorio aiutò l’industria casearia a rispondere alla domanda in crescita da parte dei consumatori. Era un periodo di forte cambiamento per il sistema agricolo e la possibilità di coprire tutti i difetti del latte con la pastorizzazione, e la conseguente possibilità di aggiungere fermenti selezionati, sopraffece gusto e territorialità. Ma soprattutto, l’industrializzazione degli starter superò i limiti della stagionalità, svincolando i batteri dal ciclo caldo-freddo». Oltre alla biodiversità, secondo Percival, bisogna fare attenzione alle sofisticazioni: «Agendo sul gusto, i batteri sono stati utilizzati spesso a sproposito, come nel caso del cheddar per renderlo più dolce, incontrando il favore di palati profani e allo stesso tempo compromettendo l’identità di un prodotto e anni di tradizioni».

 

Ma il discorso del naturale non vale solo per il formaggio. Lo sanno bene quei produttori di salumi che hanno scelto di non utilizzare nitriti e nitrati nella loro carne e per questo si ritrovano a lottare da una parte con rigidi regolamenti igienico-sanitari, dall’altra con la diffidenza del consumatore per il quale un prosciutto cotto grigio (che sarebbe il suo colore naturale) diventa meno appetibile rispetto a uno dal colore rosa, ottenuto grazie all’utilizzo di additivi. E questo vale anche per l’estero: Tobias Karlsson, membro della Eldrimner, una scuola che in Svezia insegna agli artigiani le tecniche per trattare le carni senza nitriti e nitrati, racconta la testimonianza di un produttore che era riuscito a vendere i propri prodotti solo ai clienti con cui poteva dialogare e spiegare le motivazioni di quell’improvviso cambio di colore. Mentre i salumi conferiti al supermercato, dove non c’è lo stesso contatto con il consumatore, erano rimasti invenduti.

Ovviamente quella del cambio di colore è solo la parte più superficiale della faccenda: l’utilizzo di nitriti e nitrati è giustificato dalla necessità di conservare i salumi, ma basta guardare alla storia della norcineria italiana per capire come, utilizzando solo ingredienti naturali, si possano consumare salumi liberi da additivi in tutta sicurezza.

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